“Siamo in tre in famiglia: io, mio marito ed un bambino di 8 anni. Quando sono iniziati sia il conflitto in Israele che il conflitto fra Russia e Ucraina abbiamo reagito in maniera diversa. Io, presa dalle mie beghe lavorative, ho scelto di informarmi principalmente via web, provando a tenermi lontana da quello che era il carnaio mediatico. Mio marito, per contro, si è messo a guardare tutto ciò che passava in tv, parlandone senza filtri. Il piccolo di casa in bilico tra noi: dal silenzio è passato a fare mille domande al padre, il quale non ha disdegnato di offrire spiegazioni con dovizia di particolari.
Un normalissimo sabato, il crollo: a bruciapelo ci dice di sentirsi triste, ha una gran voglia di piangere, pensieri brutti gli frullano nella testa. Laconico, non aggiunge altro. A otto anni? Gli rispondo di piangere liberamente, ché piangono anche le mamme e i papà quando si sentono tristi. Lo invito a raccontarci cosa ha dentro, ma la sua risposta mi amareggia: ‘Non capireste, mi direste di non preoccuparmi’. Lo stringo forte a me e solo allora si lascia andare ad un pianto a dirotto (che, neanche a dirlo, mi fa sentire di un’impotenza lacerante), poi si asciuga le lacrime e si lascia andare ad una serata apparentemente serena con amici di famiglia.
Qualche giorno dopo sono tornata sull’argomento. Le sue parole mi hanno nuovamente sconcertata: la sua principale preoccupazione sembrava essere quella di ricevere una sterile rassicurazione da parte mia, evidente il timore di non essere compreso. Infine, la bomba: ‘Ho paura della guerra!’. Da confuse a serrate, le sue argomentazioni si sono fatte incalzanti: il terrore che il padre potesse andare a combattere rischiando la vita, l’angoscia per un’eventuale separazione, lo sbigottimento di fronte alla possibilità di dover lasciare casa.
Mi sono sentita spiazzata, un ruminio incessante nella sua testolina di cui non avevo la benché minima percezione, perché con me, della guerra, non ne aveva mai accennato. Indagando ulteriormente, ho compreso che a scuola ne stavano parlando da qualche giorno, un sovraccarico di informazioni che vedeva i quaderni pieni di bandiere della pace, poesie contro la guerra.
Completamente disarmata, ho scelto la verità, quella originale quanto scomoda: ‘Anch’io sono preoccupata, ti capisco bene. Non so cosa potrà accadere, ma in qualunque caso ci proteggeremo l’un l’altro. Di questo sono certa, amore mio’. L’ho stretto forte a me e me lo sono sbaciucchiato tutto. Le informazioni, se mal esposte o mal dosate, possono davvero creare mostri nella testa dei bambini”.
Pensavo fosse un capriccio, invece era la guerra: come parlare della guerra ai bambini?
La guerra uccide il sogno, il desiderio, la gioia, la fiducia nel futuro, strangolando il senso della normalità. Ciò che lascia senza fiato è quella subdola assuefazione alla distruzione, alle macerie, alla brutalità che porta con sé, interrompendo con violenza il quotidiano, annebbiando il corso della vita.
Tuttavia ai bambini di guerra bisogna parlare, parlarne per prevenire ed arginare le reazioni da stress di fronte ad una vita che mai avremmo previsto di vivere.
Perché dalla pandemia alla guerra, di roba ce n’è stata parecchia: un’esposizione opprimente che si è trascinata dietro incertezza, angoscia, paura, impotenza, imprevedibilità, perdita di speranza, vissuti che vanno necessariamente accolti, legittimati, mai giudicati, integrati all’interno di una narrazione che prevede la possibilità di fare domande (quelle domande che i bambini a volte non fanno, perché sentono di metterci in imbarazzo), domande che devono ottenere risposte chiarificatrici.
Il pericolo maggiore a cui, oggi, i bambini sono esposti è quello di una traumatizzazione vicaria: ciò che accade altrove può essere concepito come altrettanto pericoloso per loro stessi. Prevedibilità e sicurezza, questo è ciò di cui necessitano, il che comporta potersi fidare degli adulti di riferimento, quelli che osservano attentamente quando cercano di intuire come funzioni il mondo.
Inevitabilmente la questione si ingarbuglia se noi, gli adulti, siamo i primi ad essere sopraffatti dalla paura e dalla perdita di speranza. Negare le nostre emozioni non è mai buona cosa, perché quelle rischiano di presentarsi sul viso senza invito; tuttavia condividerle non è facile.
Il punto sta nel trovare un modo coerente per esternarle: “Comprendo la tua preoccupazione, anch’io sono preoccupato e mi dispiace molto per i bambini che stanno vivendo la guerra, così come mi dispiace per te che ti trovi a conoscere cose così brutte”. Celare i sentimenti allo sguardo vigile di un bambino è rischioso, proprio perché l’incoerenza tra linguaggio verbale e non verbale potrebbe gettarlo nella più totale confusione.
Questo non significa pretendere da lui un ruolo che non gli compete, quale quello di amico intimo a cui confideresti tutto senza riserve.
Che fare, per contro, quando i bambini non dicono, non parlano, non chiedono? Come cogliere un possibile disagio che non riescono a mettere in parole? I comportamenti senza voce, i giochi messi in atto, i piccoli sintomi somatici (mal di pancia, mal di testa, stanchezza eccessiva), i disturbi del sonno o i risvegli notturni, i pianti improvvisi per motivi banali, i gesti irritati, aggressivi, rabbiosi, i mutismi, i silenzi prolungati, sono tutti segnali che qualcosa non va.
Una maggiore difficoltà a separarsi dagli adulti di riferimento, per esempio, può celare la preoccupazione che accada loro qualcosa di brutto; un’insistente difficoltà a concentrarsi a scuola può rivelare una testa affaticata piena d’altro; un temporaneo calo del rendimento scolastico può indicare un bisogno muto d’attenzione.
Giocano ripetutamente a fare la guerra? Giocano con violenza? Interpretano la parte del “cattivo”? Se il desiderio è quello di primeggiare sui più deboli, sotto potrebbe celarsi il bisogno di vedersi garantita la sopravvivenza: la vulnerabilità si combatte spesso con gesti aggressivi.
Nessun giudizio, lasciamo che i rimproveri cedano il passo alle spiegazioni empatiche: “Forse ti stai comportando così perché c’è qualcosa che ti fa paura?”.
Come parlare della guerra agli adolescenti?
Gli adolescenti potrebbero, invece, sdrammatizzare, scegliendo l’ironia o il sarcasmo, un modo per prendere le distanze da emozioni incombenti eccessivamente angoscianti. Lasciare da parte il rimprovero giudicante offre, anche in questo caso, la possibilità di avvicinarne in punta di piedi la vulnerabilità, invitandoli a guardarla da vicino: “A volte scherzare molto sulle cose ci protegge da emozioni difficili da contattare. È normale, è una forma di difesa. Potremmo capire insieme cosa comporti per te questo momento drammatico”.
Occhio a svicolare dalle domande dirette dei bambini: quelle esigono risposte! Certo, può mettere in difficoltà non avere tutte le risposte in tasca, ma evitare argomenti scomodi non li protegge dalla sofferenza, mentre li espone alla confusione interiore. Il risultato sarà quello di far loro “drizzare le antenne”, promuovendone un sottile, quanto perenne, stato d’allerta.
Aiutarli a mettere in parole ciò che sentono è la soluzione: “Cosa pensi, cosa provi, cosa vorresti sapere, come ti senti, cosa sai, ne avete parlato a scuola?”, domande che vanno di pari passo con il diritto di dire loro che non si hanno tutte le risposte, se non le si hanno veramente.
Minimizzare non va bene: “La guerra è lontana, noi siamo al sicuro” è una mezza verità. Svalutare va male: “Chi ti ha messo in testa che qui può accadere qualcosa di brutto? Gioca e non pensarci!”. Banalizzare va perfino peggio: “I bambini devono solo essere felici”. Sì al dialogo emotivo: “Cosa diresti ad un bambino che vive in quelle zone?”. La capacità di provare emozioni di tristezza nei confronti dei pari è una delle prime forme di empatia.
La questione sta nel fornire risposte franche, comprensibili, proporzionate all’età, in grado di fare ordine tra quello che hanno già sentito e ciò che provano, perché l’obiettivo è contenere visioni distorte o più drammatiche della realtà. Fornire una versione soggettiva dei fatti non serve, mentre risulta protettivo aiutarli a raccontare quello che vivono dentro di sé: ascoltare con rispetto facilita la libera espressione delle emozioni e la costruzione di significati, integrando in modo proficuo informazioni ed emozioni.
Guardare tutti insieme il telegiornale, commentare quello che sta accadendo, contenere quantitativamente e qualitativamente il tam tam delle notizie e delle immagini, sono buone prassi: “Sai dove si trovano la Russia e l’Ucraina? Perché si fa la guerra secondo te?”. Ricercare informazioni insieme, alimentare conoscenze circa le popolazioni degli stati in guerra, approfondire la storia delle precedenti guerre, individuare i comportamenti che possono favorire il dialogo tra culture diverse, indagare il concetto di pace, di armistizio, di gestione dei conflitti.
Fungere da attento ascoltatore, insomma, il che significa lasciar esprimere idee, che a volte sono proprio idee giuste, fonte di stupore quanto di apprendimento per noi adulti. Per il bambino è terapeutico poter liberare preoccupazione, angoscia, paura, tristezza, sapendo con certezza di poter ricorrere all’adulto per avere un abbraccio rincuorante.
Se i più piccoli, nonostante le spiegazioni, continuano a porre le stesse domande significa che faticano ad integrare e memorizzare i contenuti che vivono come particolarmente dolorosi. Non dobbiamo fare altro che ripetere loro le risposte già date, cercando un modo ancora più semplice per riorganizzare le informazioni, lasciando soprattutto che dolcezza, contatto visivo, vicinanza fisica li avvolgano.
Non sempre ci sono soluzioni per eventi più grandi di noi, ma qualcosa di molto prezioso si può trovare: un bacio, un abbraccio, una carezza, una parola, la condivisione di ciò che si ha dentro.
Infine, un messaggio di speranza non dovrebbe mai mancare: “Sta succedendo qualcosa di brutto, a nessun essere umano dovrebbe accadere, ma si sta tentando di porre fine a questa brutta guerra”.
Continuare a sorridere, sorridere insieme: “La pace comincia con un sorriso.” (Madre Teresa di Calcutta)
articolo a cura di:
Dott.ssa Luisa Ghianda psicologa e counsellor
articolo a cura della Dr.ssa Luisa Ghianda
psicologa e counsellor, partner convenzionata
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