Dipendenza affettiva: quando la realtà è a tratti scadente è tempo di darsi una mano per guardare al futuro.
C’è “chi insegue la sua occasione… chi insegue il suo grande amore… chi insegue la sua ossessione…”. È Manuel Agnelli in La Profondità degli abissi.
Sembra che la salvezza si trovi sempre nell’Altro. Che abbia la forma di una religione, di una missione, di una relazione di coppia, non c’è differenza: la salvezza pare nascondersi in una parte del prossimo. Si insegue, allora, la propria occasione per evitare la propria fine.
Ma di quell’occasione mi pare ci si focalizzi più spesso sul bel incipit, una partenza fascinosa che inebria, supportata da un’analisi predittiva sullo stile di “what-if” che convince. Poi, strada facendo, ci si trova a pensare di aver buttato via il tempo, tanto non si sa più come proseguire. Uno squilibrio della vita, quello dell’inizio avvincente: ci si getta a capofitto in una proposta, un incarico, una relazione, ma si finisce allo sbaraglio quando è ora di girare le spalle, di chiudere una porta, di sfilarsi da un abbraccio. Nessuno ci insegna la manovra di distacco.
Nessuno, soprattutto, ci insegna a fare i conti con la domanda sottesa ad ogni nuovo inizio, quel bisogno di riconoscimento della propria unicità, di affermazione di sé, di amore. Penso sia lei, la domanda, a domandare a gran voce quell’occasione.
La dipendenza affettiva
Prendi la domanda d’amore, per esempio. Lei ha sempre funzione di argine rispetto alla sensazione della propria mancanza. La domanda d’amore chiede appartenenza. Ma tale sensazione può farsi così feroce che lei, la domanda, finisce per farsi domanda d’amore ossessiva, distruttiva, che lacera le carni. Ciò accade quando la presenza, o l’assenza, dell’Altro si è a tal punto incistata dentro di sé che la vita fatica a fluire: un sapore di amore necessario, viscerale, incorruttibile impregna la lingua e giù fino alle viscere, facendosi amore resistente ad ogni prevaricazione. Una fitta intercostale sempre lì a rammentarti il pericolo della perdita, la sensazione di solitudine.
È amore o non-amore?
È amore che nutre o amore che toglie e taglia?
È desiderio in eccesso o eccesso di desiderio?
È legame incorruttibile o spasmo incontenibile?
L’amore obbliga ad un’esposizione assoluta di sé, facendosi esperienza non priva di rischio; porta perdita del baricentro e dentro diviene equilibrismo. Tuttavia, quando la domanda d’amore si fa insaziabile, racconta di un’eccedenza di bisogno che rischia di deviare il corso di una sana reciprocità affettiva. Se è vero che l’amore spezza in due, impregnando sempre un po’ le carni di fusionalità, quando la ferita s’infetta dice qualcosa di sé. E non è qualcosa di buono.
Non si può negare che l’incontro infelice con personalità emotivamente compromesse (penso a partner problematici, evitanti, anaffettivi, rifiutanti, sfuggenti) possa dar luogo ad un’angoscia sorda che scatena fiotti di attaccamento viscerale sofferto. Il gioco subdolo di presenza-assenza, slancio-ritiro, dono-sottrazione ferisce l’Ego, accartocciando l’anima su se stessa. Malauguratamente non sempre spegne gli entusiasmi: è dal carnefice che desideriamo una carezza per le ferite inflitte, è a lui che restiamo aggrappati.
Accorgersi di essere all’interno di un dis-amore può volere un certo tempo, quello di cui l’anima necessita per ammettere a se stessa che non è quella l’“occasione”. Lasciare andare qualcuno su cui si aveva depositato una parte di sé non è operazione snella, facile, immediata. Si vorrebbe che lo fosse, ma l’anima ha bisogno di un suo tempo: la guarigione non è mai a basso prezzo.
Certamente fermarsi, abbracciarsi, chiedersi cosa stia realmente accadendo dentro di sé, di fronte a quale sopruso ci si stia inginocchiando, è l’inizio di un nuovo inizio. L’anima vuole amorevolezza. Perché esiste effettivamente una dipendenza affettiva cronica, disfunzionale, patologica, che non dice molto dell’altro ma tanto di sé. E vuole coraggio.
Soggiornare in una relazione annegata in esplicite violazioni della dignità personale, sguazzare nel vuoto solido di una relazione zoppa, tornare più e più volte su un partner che strappa, recitare in copioni tristi immutati nel tempo, è davvero poco in armonia con il principio di piacere, quel principio funzionale alla conservazione della vita. Quando la relazione di coppia è vissuta come condizione esclusiva, indispensabile e necessaria per la propria esistenza, quando l’altro diviene il centro tanto da annullare i propri bisogni, da calpestare le proprie esigenze, da riempire tutto lo spazio interno, svela non solo la dipendenza affettiva ma soprattutto una parte di sé sfiorita alla vita. Al di là del principio di piacere, è una pulsione di morte indifferente alla vita a muovere la vita stessa.
Sullo sfondo, l’ombra di una famiglia d’origine traballante, sbadata, “persa dentro i fatti suoi”, canterebbe Vasco: genitori distanti, assenti, poco sintonizzati sui bisogni infantili; genitori ambivalenti, “intermittenti”, tanto da provocare un perenne stato d’attesa; genitori inconsapevoli, che hanno usato i figli in maniera strumentale per tenersi vicino il partner, per attaccarlo o indebolirlo. Genitori in buona fede, ma spenti, ammaccati dai dolori della vita.
È allora che la domanda d’amore rimasta inevasa si è fatta acuta, acutissima. È così che quella dose d’amore insufficiente ha creato astinenza. Nelle vene, un’angoscia rasposa nutrita dal terrore della solitudine; nel cuore, la percezione cupa di non avere valore alcuno senza un partner accanto; nella mente, un’esigenza appuntita di controllo; fuori, una gelosia infuriata che non dà tregua; dentro, un pensiero ruminante di abbandono in balia dell’ossessione del tradimento.
Riprodurre con il partner di oggi il contesto infelice di allora finisce per essere un tentativo inconscio di sanarlo. L’infanzia conta sempre in amore.
Laddove da bambini c’è stata mancanza di rassicurazione, di rispecchiamento, di contenimento da parte delle figure di accudimento (tipicamente la madre o supplente, subito dopo il padre o altri adulti significativi), il lascito è quello di adulti che difettano nella percezione di sé, incapaci di portare in primo piano le proprie emozioni, i propri bisogni. Famelici di riconoscimento, non si sentono legittimati a ricevere amore, si accontentano della non-considerazione, del dis-amore. Si ergono a paladini del potere curativo della “sostanza stupefacente”: “Il mio amore lo/la cambierà”. Accettano, subiscono, compiacciono senza misura, annegati in una prepotente percezione di non essere “abbastanza”: mai abbastanza…mai abbastanza degni di essere amati.
Forse ci s’innamora anche per guarire, come scrive S.Brizzi nella prefazione di “Anatomia della coppia” di E.F.Poli, ma è certo che senza equilibrio interiore quella relazione è destinata ad essere poco altro se non palestra di equilibrismi. Il merito di un amore “sbagliato” è l’obbligo a cui costringe: prendersi in mano. Come abili chirurghi, suturare le ferite si fa arte, poesia, soprattutto cura.
Qualcuno di noi ci è dentro fino al collo. Oggi. Stai guadando? La crisi porta progressi. Perché è nella crisi che emerge la forza vitale. Senza crisi tutti i venti sarebbero solo lievi brezze.
Darsi il permesso di esistere, di esserci. Prendersi un posto. Oggi. L’unica crisi pericolosa è l’assenza di lotta.
Permettere alla vita di esporsi nuovamente all’urto del nuovo, al di fuori della ripetizione nevrotica, al di là della ricerca dell’oggetto perduto: è così che guardo alla guarigione.
La realtà è a tratti davvero scadente. Serve una mano: darsi una mano per guardare al futuro. Solo se si è fedeli a se stessi la vita non si trasforma in un’esperienza spaventosa.
Approfondisci guardando i video sulla dipendenza affettiva e il rapporto col narcisista
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articolo a cura della Dr.ssa Luisa Ghianda
psicologa e counsellor, partner convenzionata
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